Appunti di araldica vicana
I.1
La Famiglia Roberti
Dott. Antonio Leo de Petris
Il tessuto socio-economico di un centro periferico non è oggetto, assai sovente, di alcuna attenzione da parte della storiografia. Se, però, almeno per quanto riguarda Vico, iniziano a essere condotti studi più sistematici e approfonditi a opera di meritevoli studiosi, nulla ancora si è detto ove si faccia uso degli strumenti che offre l’Araldica, la scienza, cioè, che studia e interpreta gli stemmi, stabilendone le regole di uso e composizione
Queste poche pagine, che non hanno pretesa alcuna di completezza, vogliono costituire una prima introduzione al tema.
Si rende necessaria, tuttavia, una precisazione di carattere metodologico: non si farà mai riferimento, in questo lavoro, ad alcun titolo nobiliare, se non per via indiretta. Il motivo è semplice: nessuna delle Famiglie di cui si tratterà, almeno nel ramo vicano, risulta titolata. Si tratterà, più semplicemente, di nobiltà c.d. generica. La tematica meriterebbe, sotto il profilo giuridico, un trattamento assai meno superficiale, teso a delimitare le categorie stesse in cui si suddivide la nobiltà. D’altro canto, non si dimentichi che Vico, terra baronale, per una sorta di “costrizione” legata agli usi e alle consuetudini del diritto nobiliare, non avrebbe potuto accogliere alcuna istituzione di “piazze chiuse”, “piazze aperte” o “sedili di nobiltà”, di tal che non si sarebbe potuto produrre quel fenomeno di agglutinazione – legale – di tutte le Famiglie nobili del Borgo.
D’altro canto, l’indagine storica che si interessi di Vico dovrà fare i conti con una notevole lacuna cronologica che interessa le fonti, ciò che costituisce, per un verso, un ostacolo insormontabile al minuzioso accertamento di tutte le parentele contratte dalla Famiglia di cui si tratti e, per l’altro, impedisce di individuare l’esatta provenienza della gens (attraverso le tappe intermedie spesso costituite da Manfredonia e Monte Sant’Angelo).
Infine, si tenga conto del fatto che l’analisi che si intende condurre avrà a oggetto solo le Famiglie per cui si è potuto rinvenire, nel nostro Centro storico, un manufatto lapideo di antica fattura o altra rappresentazione documentale chiaramente identificabile come blasone (o parte di esso) della Famiglia considerata, e ciò in base a indizi per quanto possibile certi.
Si discorerà, allora, delle seguenti gentes: Arcaroli, dall’Armi (o ab Armis), Dattilo, de Ciocchis, de Petris, della Bella, Ferro, Pisano, Roberti.
Ho ritenuto opportuno intraprendere questa ricerca principiando dalla Famiglia Roberti in ragione del numero di notizie già raccolte e in conseguenza dal fatto che un personaggio appartenente alla gens – don Giuseppe Roberti – ha formato altresì oggetto di un mirabile saggio apparso ormai diciassette anni orsono (è il volume di M. Tortorella, Vico Magica. La Cabala di don Giuseppe Roberti e il libro di San Tommaso, Foggia, 2005, 22 e ss).
La questione che deve essere primariamente affrontata da chi voglia rivolgere la propria attenzione al campo di studi storico-araldico-genealogici – e che costituisce un prius logico di primaria importanza – è costituita dal problema delle origini.
E difficoltà di non poco conto si palesano a tal proposito anche per la Famiglia Roberti: le ipotesi da considerare sono diverse e, come ora si avrà modo di vedere, non del tutto conciliabili.
Una parte della storiografia, invero, ha creduto che la stirpe dei Roberti fosse discendente da quella prosapia che i genealogisti sono soliti denominare dei Figli di Manfredi, insieme ai Pico della Mirandola e ai Pio di Carpi (v. P. Litta, Famiglie celebri italiane. Pico della Mirandola, Fasc. 10, Disp. XIV, Tav. V, 1823 [rist., con prefazione di V. Cappi, Modena 1994]; F. Pasini Frassoni, La Famiglia Roberti, in Rivista del Collegio araldico (Rivista araldica), XXV, 1927, 132).
Più in particolare, intorno all’anno 1071, si rinviene notizia di un tal Manfredo – figlio di Adalberto Visconte di Mantova – abitatore del castello di Limidi e cortigiano presso la Corte della Contessa Matilde di Canossa, che generava, unendosi in matrimonio con Alda, Alberto, Bernardo (da cui discesero i Pio Signori di Carpi), Guido, Federico e Ugo.
Dal predetto Alberto – che nell’Anno del Signore 1113 compare quale testimonio in un instrumentum che ha tra le parti anche la Contessa Matilde – e dalla moglie di lui, ignota, discesero Roberto (vivente intorno al 1169), Pico e Bernardo. Roberto, a sua volta, generò, insieme alla moglie di cui pure è sconosciuto il nome, Alberto che, per indicare la discendenza, prese il cognome patronimico Roberti.
Dalla stirpe consortile dei Roberti – a sua volta facente parte, come si è veduto, della consorteria dei filii Manfredi e di probabile origine longobarda (ma vi è chi parteggia per quella franca) – sarebbero poi originati diversi e ulteriori rami, diffusisi in tutto il territorio italiano, tra cui quello dei Signori di San Martino in Rio, quello da questi ultimi derivante dei Roberti di Tripoli (discendenti da Guido Roberti, partecipe alla quinta Crociata tra il 1219 e il 1222, durante la quale venne nominato Vescovo di Tripoli e investito della relativa Contea), e quello dei Roberti da Forno.
Se si accettasse tale ipotesi, dunque, dovrebbe supporsi che i Roberti di Vico presero origine dalla medesima consorteria – per il tramite di un ramo ulteriore trapiantatosi in Recanati (e più innanzi il riferimento a tale Città troverà l’opportuna spiegazione) – e a sua volta derivata da quella dei Figli di Manfredo.
La difficoltà di tracciare un filo che possa unire – in modo univoco – i Roberti vichesi a quelli emiliani è, tuttavia, se non insuperabile, comunque di difficilissima soluzione, specialmente in ragione della totale mancanza a livello locale di fonti che siano in grado di gettar luce sulla storia genealogica di molte famiglie vicane tra i secoli XIV e XVI. Non vi sarebbe nulla di particolarmente strano nel fatto che un ramo secondario di una Famiglia di notevole importanza si fosse spostato lungo la Penisola in cerca di miglior fortuna. È noto che spesso i c.d. rami cadetti, impossibilitati a ereditare il feudo, il titolo che su esso poggiava e le collegate rendite (in ragione del principio della primogenitura e, ove, come nel caso dei Roberti, si fosse professata Legge Salica, ai primogeniti maschi), versavano spesso in condizioni tali da dover dedicare la propria vita al mestiere delle armi, alle questioni della Fede, o alla pratica delle professioni liberali.
Sarebbe un errore, pertanto, ritenere il microcosmo vicano quale entità chiusa o, al massimo, aperta all’ingresso di nuclei familiari originatisi nei paesi viciniori.
E non è neppure troppo singolare che tali Famiglie si stabilissero presso un borgo di relativa importanza come Vico tra i secoli XVI e XVII, specie qualora i componenti delle stesse si fossero dedicati alla pratica della giurisprudenza o della medicina. In un grande centro, infatti, essi avrebbero sofferto non solo la “concorrenza” delle Famiglie della nobiltà locale ma, anche, di un tessuto sociale sicuramente più ricco di esponenti del ceto borghese e mercantile che, con altrettanta facilità, dedicava le proprie energie alle predette arti. Diversamente, in una realtà “minore”, essi avrebbero potuto signoreggiare sulla restante popolazione, accumulare ricchezze attraverso il mestiere di notaio o dottore fisico, acquistare terra e commerciarne i prodotti, spesso appoggiando, nei compiti di governo del feudo, i Signori locali (sovente assenti e dimoranti nei centri maggiori).
In tale ottica più generale, dunque, deve essere inquadrata anche la “provenienza” della Famiglia Roberti di Vico.
In ogni caso, ritengo di poter scartare, in mancanza di documenti idonei a confutare la tesi, l’ipotesi di un qualche collegamento tra i Roberti emiliani e quelli stanziatisi in Vico. E un indizio particolarmente importante in tal senso – oserei dire risolutivo – lo offre proprio l’araldica. Il blasone dei Roberti di Reggio – secondo quel che ne dice F. Pasini Frassoni, La Famiglia Roberti, cit., 132 – può essere così blasonato: spaccato merlato di nero e d’argento a tre gigli d’oro ordinati in fascia sul primo.
Teniamo dunque fermo questo dato fondamentale. Vedremo tra breve in che termini esso sia idoneo – per quanto mi consti – a risolvere questo primo punto nel senso prospettato sopra.
Esclusa in tal maniera l’origine “emiliana” della Famiglia, continuiamo a interrogarci sulla provenienza del ramo vicano, cercando qualche indizio che ci consenta di dare una risposa plausibile al quesito. Ritengo, invero, che un responso in tal senso lo offra un bellissimo esempio di arte araldica che si incontra a pochi passi dal principio di Via San Giuseppe, provenendo dal Castello e volgendo lo sguardo alla propria sinistra, di fronte alla Chiesa dell’Annunziata. Si tratta, più nello specifico, di un manufatto lapideo che orna il portale di una dimora certamente gentilizia e che, in verità, non è stato oggetto di alcun approfondito studio sotto il profilo araldico. Il primo che ne discorre – pur non proponendo una identificazione della Famiglia cui apparteneva lo stemma – è M. Tortorella, Vico Magica. La Cabala di don Giuseppe Roberti e il libro di San Tommaso, cit., 22, il quale precisa, riferendosi a don Giuseppe Roberti: «Nato a Vico del Gargano … trascorse la sua vita attiva nel paese natale officiando nella chiesetta dell’Annunziata dirimpetto alla quale aveva la propria abitazione contrassegnata ancor oggi da un elaborato e bellissimo scudo araldico di cui non si conosce il titolare».
È stato proprio questo “suggerimento indiretto” che ha consentito di giungere alla incontrovertibile identificazione del blasone. Esso, infatti, appartiene proprio ai Roberti e, precisamente, al ramo di questa gens che si ritrova nobile in Recanati.
Soffermiamoci primariamente sul manufatto in pietra, di notevole fattura, opera certamente di uno scultore che non solo conosceva l’arte araldica ma, ancor più, era maestro nella rappresentazione dei volti. Esso, infatti, è costituito da uno scudo ovale – forma detta “iberica” – sorretto da due “tenenti” costituiti da angeli che sembrano quasi far capolino dalla parte retrostante dello scudo, come se lo stessero sostenendo in volo e, nella parte inferiore, appare il volto empireo di un altro angelo. Essi sono squisitamente scolpiti nella pietra (che in origine doveva costituire un blocco unico). Lo scudo è privo di svolazzi che, invero, sono sostituiti da ornamenti che ricordano il mondo naturale.
Di notevole interesse è l’elmo, la cui analisi ci consente di formulare alcune ulteriori considerazioni. Le regole che l’araldica detta per la composizione degli stemmi – sebbene in alcuni tratti mutevoli e peculiari in base alle diverse entità nazionali di riferimento – regolano minuziosamente l’utilizzo degli elementi che compongono il blasone.
Ebbene: il manufatto che stiamo esaminando reca sulla sommità un elmo – si discorre in tal caso di “timbratura” dello scudo – pregevolmente scolpito, orientato in pieno profilo verso destra (la sinistra, per chi osserva frontalmente lo scudo). Tale prima caratteristica, secondo le leggi araldiche, indica una famiglia di cittadinanza o, secondo la scienza blasonica delle province meridionali, la famiglia di un gentiluomo antico cavaliere. D’altro canto, il fatto che l’elmo sia orientato alla destra araldica indica la discendenza da un figlio riconosciuto, sia pur capostipite di un ramo cadetto (diversamente, se si fosse trattato di un figlio naturale, l’elmo sarebbe stato orientato alla sinistra araldica [alla destra, cioè, dell’osservatore]).
Ma l’analisi può spingersi oltre: l’elmo, infatti, è affibbiato. Con il termine affibbiatura si suole indicare il numero delle griglie che decorano le visiere degli elmi, numerazione che varia in base alla graduazione di nobiltà della famiglia cui il blasone appartiene. Nel caso che ci occupa, più nello specifico, è possibile contare cinque affibbiature, numero che, in accordo con la direzione araldica in cui è posto l’elmo, indica appunto la famiglia di un gentiluomo e cavaliere antico.
D’altro canto, che la Famiglia dei Roberti di Vico fosse di antica cittadinanza lo prova altresì il numero delle penne (di struzzo) che ornano l’emo che timbra lo scudo. Esse, in origine, dovettero essere cinque, sebbene oggi se ne contino solo quattro (ciò si deduce facilmente osservando il manufatto, che appare danneggiato ove doveva trovarsi la quinta). Tale numero (che doveva essere sempre dispari), per l’appunto, indica la condizione di antica cittadinanza.
Quindi, e in conseguenza di questa prima serie di indizi, è possibile affermare come la Famiglia Roberti di Vico fosse una famiglia nobile, di antica cittadinanza, discendente da un figlio riconosciuto ma cadetto, a cui non sarebbe spettato ereditare il titolo nobiliare (e lo stemma, infatti, è privo di corona).
Passiamo ora all’esame di ciò che è propriamente “raffigurato” all’interno dello scudo, che appare, sempre facendo riferimento alla terminologia araldica, partito, cioè suddiviso in due direzioni araldiche. Le due partizioni sono orientate l’una – quella che contiene il blasone dei Roberti – alla destra araldica (cioè, come si è detto, alla sinistra di chi guarda frontalmente lo scudo) e l’altra, di cui si dirà più innanzi, alla sinistra araldica.
Fermandoci alla mera descrizione delle figure, può notarsi come essa si articoli attraverso l’utilizzo delle seguenti immagini: una croce c.d. filettata, sei stelle che sono “adagiate” sulla stessa e, nella parte superiore, è posto il c.d. capo di Francia (vedremo poi cosa si intende indicare con tale locuzione).
La blasonatura suonerà, ordunque, nel modo seguente (non verrà proposta, per ragioni di semplicità, nel suo insieme, cioè includendo anche gli elementi esterni allo scudo e le raffigurazioni poste nella partizione alla destra araldica): d’azzurro, alla croce filettata d’argento, caricata di sei stelle d’oro, con il capo di blu a tre gigli d’oro posti in fascia. La spiegazione circa l’aggiunta degli smalti sarà fornita nella seconda parte dello studio qui condotto.
Giunti a questo punto, il lettore si sarà domandato d’onde (e in che modo) io abbia tratto la notizia che doveva trattarsi dello stemma della Famiglia Roberti.
Prima di proseguire, e con la mente alla descrizione dello stemma araldico che si è fornita in precedenza, occorrerà placare la curiosità che suscita certamente tale quesito.
Devo certamente parte del merito al volume sopra ricordato di M. Tortorella, nel quale lo Studioso ha identificato l’abitazione di don Giuseppe Roberti proprio con quella, posta di fronte alla Chiesa dell’Annunziata, ove lo stemma risulta collocato: il dubbio che esso potesse dunque appartenere alla Famiglia Roberti si è fatto naturalmente strada nella mente di chi scrive, a ciò ulteriormente spinto dai racconti di Famiglia che discorrevano della certa nobiltà della prosapia di cui qui si tratta (i Roberti, infatti, risultano imparentati con i de Petris per parte materna e paterna attraverso le Famiglie Monaco e della Salandra).
La ricerca si è dunque dipanata nello spoglio degli almanacchi nobiliari, delle raccolte di blasoni, degli elenchi della nobiltà italiana ed estera, sino a giungere al perfetto riscontro con lo stemma alzato dalla Famiglia Roberti di Recanati, il cui blasone, identico a quello dei Roberti di Vico, può vedersi raffigurato nel Compendio storico della Città, e Vescovado di Ricanati, e Loreto; Con qual’occasione trattasi della Famiglia Patrizia dello stesso Nome Ricanati. Altrimenti detta Venieri, alla medesima Dedicato Dal P. Coronelli ex Generale dell’Ordine di S. Francesco M.C., s.d. (ma 1700?), s.l., Tavola dei Blasoni della Città, e Famiglie nobili di Ricanati.
La “compartecipazione blasonica” – unitamente, è chiaro, all’identità dei cognomi – non può che indicare la comune identità genealogica. Ed ecco la prima evidenza della “permeabilità” della microstoria locale rispetto ad altre microstorie, di luoghi ben più distanti.
Ma ciò ancora non rispondeva al quesito principale alla cui risposta era rivolta la ricerca intrapresa, e cioè accertare, nei limiti del possibile, l’origine remota della Famiglia Roberti di Vico.
Che quella vicana dovesse essere una ramificazione secondaria di quella di Recanati – giunta probabilmente attraverso la tappa intermedia costituita da Monte S. Angelo, come suggerisce M. Tortorella, Vico Magica. La Cabala di don Giuseppe Roberti e il libro di San Tommaso, cit., 23 – era ormai una certezza. Che essa dovette insediarsi a Vico in epoca assai remota lo conferma altresì lo stemma che, come si è dimostrato, reca tutti i crismi araldici che indicano una Famiglia di antica cittadinanza. Peraltro, lo stile stesso dello stemma nel suo complesso – la forma ovale, tipica dell’araldica iberica (il che potrebbe suggerire il conformarsi alle “mode” araldiche viceregnali), la rappresentazione di penne di struzzo, che sostituiscono il cimiero a partire dal XV secolo – suggeriscono un periodo di realizzazione ricompreso tra la fine del secolo XVI e i primi anni del secolo XVII.
Tuttavia, nonostante le difficoltà, e accertata l’identità di ceppo, poteva ancora sperarsi di condurre una ricerca che partisse dai dati riguardanti la Famiglia Roberti di Recanati, in verità abbondanti in conseguenza dell’importanza della stessa: basti qui dire che Giacomo Leopardi annoverava tra i propri avi diretti tal Dorotea Roberti, a proposito della quale C. Antona-Traversi, Documenti e notizie intorno alla Famiglia Leopardi per servire alla compiuta biografia del Poeta, Firenze 1888, 319, osserva: «Ho inteso che da questo parentado [quello, cioè, tra i Leopardi e i Roberti, n.d.a.] prendesse occasione di stabilirsi in Recanati questa nobile ed antica Famiglia, che l’Ughellio afferma essersi parecchi secoli innanzi dalle Gallie traslatata in Italia».
Sicché, l’origine della Famiglia Roberti di Recanati – e, stante l’unicità di ceppo, altresì quella del ramo secondario di Vico – doveva essere in terra di Francia.
E in effetti, a proposito di Antonio Francesco Roberti, appartenente al ramo recanatese della gens, Vescovo di Urbino dal 1685 sino alla morte avvenuta nel 1701, l’Ughellio – Italia Sacra sive de Episcopis Italiae … Opus singulare … Tomus Secundus … Auctore D. Ferdinando Ughello. Editio secunda … Venetiis, 1717, col. 806, num. LVIII – così si esprime: «Antonius Franciscus Robertus Recinatensis ex antiqua, et nobili familia a Galliis in Picenum ante nonnulla saecula traducta…». Peraltro, l’attendibilità della descrizione dell’Ughellio è confermata dal fatto che nella sua opera egli si premurava di riprendere il blasone del Vescovo Roberti, anch’esso identico a quello dei Roberti di Recanati e di Vico.
L’indagine, pertanto, doveva spostarsi al di là delle Alpi, in territorio gallico. Ed era necessario individuare un legame tra l’Italia e, se esistente, una Famiglia Roberti francese.
Ancora una volta, la risposta doveva trovarsi nella funzione “unificante” della Res Publica Christiana, e nei personaggi che la rappresentavano in Europa.
Il predetto legame, infatti, è da individuarsi in un importante cardinale di Santa Romana Chiesa, Ademar (o Aymar) Robert, Ademaro (o Aimaro) Roberti, vissuto a cavallo del Trecento. È di questo personaggio, e della Famiglia Robert dei visconti di Saint Jal, che nel prossimo articolo dovrà discorrersi.
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