Quale futuro per le popolazioni distanti dai grandi centri urbani e dai servizi «necessari»? Interrogativo da primo posto nella classifica delle «preoccupazioni» di tutti gli amministratori pubblici e privati.
Per il Gargano, discorso a parte.
Secoli di isolamento geografico e di carenze strutturali a qualsiasi livello, hanno caratterizzato la vita dei nostri avi e in parte anche la nostra.
Non è bastato il progresso socio economico e la dilagante tecnologia per arginare e accorciare distanze.
La qualità della vita non è solo un «fatto di classifiche» ma è l’essenza stessa delle persone, gente in carne ossa, «umani» che fanno la fila alle Poste, che attendono una prestazione sanitaria specialistica per mesi e mesi e se vanno in pronto soccorso durante le feste è meglio (silenzio...).
Ho letto dei post sui social davvero allarmanti che invocano a «fare qualcosa» immediatamente ognuno con il suo ruolo e le proprie competenze.
Stiamo perdendo tutto. Ma è così complicato garantire un minimo di assistenza di primo soccorso quando il paziente non sa dove sbattere la testa? E’ così difficile «regalare» un po’ di tranquillità alle popolazioni garganiche quando si è sfortunatamente alla ricerca di un medico nei giorni di festa?
Ma se i servizi sanitari lasciano a desiderare anche altre emergenze devono far riflettere.
Ho provato a ripercorrere con la memoria le stradine del paese per curiosare tra le vecchie botteghe degli artigiani, quasi tutti amici di mio padre che a ridosso delle feste coglievo sempre indaffarati nelle ultime «consegne».
Cito alcuni: Vuncinzin «A panett», sommerso da cumuli di scarpe di ogni tipo, Michelino Preziusi lo stagnino nella salita «D’ntriucc» con i suoi «vutini» pronti a contenere il prezioso olio, ho ancora in mente il maniscalco sotto casa mia, Tummasin «u f’rrer», instancabile e serio che ospitava contadini e agricoltori con i loro arnesi da lavoro (asini e muli compresi).
Uomini operosi che hanno dedicato una vita al lavoro: Pasquale il falegname passava tutti gli anni a ricevere il calendario e insieme a lui tanti ex operai di mio nonno Michele, che già nel 1938 facevano le olive a San Biagio, nella «vascianza». Gente rispettosa, dignitosa, timorati e onesti, uomini di altri tempi.
Umanità che sta scomparendo travolta dal cambiamento epocale, che oltre alla manualità stravolge anche i modi di essere, i costumi e le migliori tradizioni.
I dati raccolti nei mesi precedenti e pubblicati su questo foglietto sono inquietanti.
La lenta e inesorabile scomparsa di alcuni mestieri e dei loro relativi attori protagonisti, quegli artigiani capaci di cambiare il «gusto» delle cose, è quanto il progresso ha generato nel tentativo estremo di facilitarci la vita.
Ma può un paese fare a meno di loro?
Tra non molto toccherà ad altri lavori manuali e sarà necessario prenotarsi mesi prima per una prestazione di manodopera con gli ultimi coraggiosi artigiani rimasti ancora in attività.
Bisogna incentivarli, supportarli, aiutarli economicamente ed anche premiarli.
Simbolicamente il premio «Fuoriporta» per il personaggio dell’anno lo daremo a Giuseppe Scelsi. (Leggere pag. 8)
Oggi, a dirla con Piero Angela: «L’Italia è un paese morto, non ci sono punizioni per chi sbaglia, non ci sono premi per chi merita».
Buon anno nuovo a tutti.
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