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Michele Eugenio Di Carlo

L’OLIVICOLTURA DEL GARGANO A FINE SETTECENTO

L’OLIVICOLTURA DEL GARGANO A FINE SETTECENTO

di Michele Eugenio Di Carlo

Nel Settecento il Tavoliere era asservito alla pastorizia transumante tramite il regime fiscale della Regia Dogana che imponeva un rigido schema divisorio tra l'attività agricola e quella pastorale.

All’abate di Ripalimosani Francesco Longano, la pianura dauna apparve quasi priva di coltivazioni arboree, mentre il Gargano, a parte il lato meridionale sassoso e che a stento produceva «qualche poco d’erba bassa», era ricchissimo «in Grano, Fave, Legumi, vigneti, Frutteti, Oliveti», ma anche in produzioni di fichi, pere, mele, ciliegie, nespole e moscato di ottima qualità.

Anche il molisano di Santa Croce di Magliano, Giuseppe Maria Galanti, nella relazione sulla Capitanata del 1790, annota che «il Gargano è feracissimo in tutti i generi di piante», nonostante sia «una regione avvilita dalla servitù de’ riposi della Dogana di Foggia e dalla schiavitù feudale». Degli olivi rileva che crescono dovunque, soprattutto a Monte S. Angelo, Vieste, Vico e Ischitella, precisando che l’olio estratto «è dolcissimo, e quello di Viesti si distingue in delicatezza».


Sulla qualità dell’olio viestano Manicone si limita a citare lo storico di Vieste Vincenzo Giuliani, il quale aveva scritto che era migliore persino di quello di Venafro, anche perché i venti trappeti esistenti sul territorio permettevano che «tutte le olive si macinan fresche», per cui «dilicatezza e bontà» erano assicurate. Il salentino Cosimo Moschettini, rinomato studioso in scienze agrarie di Martano, aveva certificato la maestosità degli ulivi della Calabria meridionale destando le obiezioni di Manicone, il quale lo invitava a visitare Vieste e il Gargano nord, dove gli oliveti sembravano boschi tanto erano alti e folti.

Per avere un quadro completo ed esauriente delle produzioni agricole di fine Settecento occorre necessariamente far riferimento agli scritti del frate Michelangelo Manicone dai quali traspare, soprattutto nell’area nord-orientale, l’immagine di un paesaggio agricolo ricco, autentico paradiso in terra con pianure e colline densamente rivestite di uliveti, vigneti e agrumeti che rendono l’aria balsamica e salutare. L’«ogliarola» garganica era la varietà olivicola più diffusa, ma i vichesi, ad uso mensa, coltivavano anche olivi di varietà «provenzana», dolce e gustosa quella nera, e effettuavano la raccolta battendo i rametti fruttiferi con lunghe e sottili pertiche di legno, pratica che produceva notevoli danni alla pianta. In riferimento all’estrazione dell’olio, i vichesi usavano passare le olive una sola volta sotto la macina, ottenendo basse rese. Per il resto l’olio, che fino a qualche tempo prima era fetido e scadente qualitativamente poiché le olive venivano ammassate nei «cammini» per lungo tempo prima di essere molite, risultava a fine Settecento di qualità finissima poiché le olive venivano macinate appena raccolte.

A Rodi le olive si lasciavano semplicemente cadere a terra fino a giugno inoltrato, diventando facile preda degli uccelli. Rodi era «un paradisiaco paese» con un territorio senza pascoli, boschi e con poca terra disponibile per l’attività agricola, tanto che aveva sviluppato un florido commercio via mare che spingeva gli agricoltori dell’intero Gargano settentrionale a intensificare le produzioni.


La maggior rendita di Ischitella proveniva dalla produzione di olio che, come gli agrumi, veniva esportato anche all’estero grazie alla marineria di Rodi. Manicone lamentava l’incuria in cui versavano gli olivi, folti, alti, pieni di rami non fruttiferi rivestiti di licheni e muschi. A Ischitella l’estrazione dell’olio avveniva anche col particolare metodo dei «sacchetti», circostanza del tutto singolare e non facilmente documentabile altrove. L’estrazione dell’olio col «metodo de’ sacchetti» era senz’altro la migliore, sia a livello qualitativo sia per la maggiore resa, ma non era economica a causa di un procedimento complesso e laborioso.


Poche le informazioni sull’agricoltura di Carpino, la cui piana addossata al lago di Varano e affrancata dalle acque non era ancora olivetata, ma coltivata prevalentemente a cereali, legumi e lino. La produzione di olio non era rilevante, ma innestando gli olivastri in località «Pastromolo» si sarebbe potuto agevolmente incrementarla. Dalle bacche del lentisco, presente anche sul cordone dunale dell’isola di Varano, i contadini estraevano l’olio per le lucerne, non disdegnando di utilizzarlo come condimento succedaneo dell’olio di oliva, nonostante un sapore decisamente pronunciato. Infatti Giuliani, che lo indicava col nome di Stingo, riferiva che i terrazzani ne raccoglievano le «coccole» che, poste sotto i torchi, davano un olio «assai aspro e forte».


A Cagnano Varano erano soprattutto le aree circostanti l’abitato, le «Difensole», a essere adibite alla coltivazione di vigneti, oliveti, seminativi e ortaggi. Manicone era del tutto convinto che, se il «Barone» avesse ordinato di innestare la folta boscaglia di olivastri, Cagnano sarebbe diventata la maggior produttrice di olio del Gargano. A Cagnano la raccolta delle olive avveniva con la brucatura a mano, ciononostante l’olio risultava di pessima qualità poiché le olive raccolte venivano ammassate per lunghi periodi in luoghi caldi, chiusi, poco areati, circostanza che provocava processi chimici di ossidazione e di fermentazione con sviluppo di muffe. La causa era da ricercare nell’insufficiente numero di frantoi, appena tre e tutti di proprietà del principe-duca. In altri termini, conveniva appartenere alla classe altolocata per molire le proprie olive nei tempi utili a ricavare un olio di qualità.


Da San Nicandro Garganico verso il lago di Lesina si stendevano distese di vigneti, mentre la parte restante del territorio presentava estese boscaglie di olivastri che costituivano una potente spinta verso l’olivicoltura. In realtà, pochi si dedicavano all’innesto degli olivastri, una larga maggioranza finiva per pascolare bestiame altrui, adagiandosi alle dipendenze feudali. Il «Piano di sagro», compreso tra il fiume Lauro e San Nazario, e le «Portate del Casone», erano località vocate alla cerealicoltura. Il grano, esportato a Rodi Garganico, Ischitella e Vico del Gargano, veniva scambiato con olio e agrumi.


Alle falde occidentali del Gargano si presentavano i territori piani di Apricena e Lesina. Apricena si distingueva per le vigne sistemate lungo le pendici della montagna ed esposte a mezzogiorno, il resto del territorio era dominato da un paesaggio agrario prevalentemente piano con distese di campi coltivati a grano, biade, legumi e olivi.


Lesina, rapita da malsane paludi, oltre le torbiere del lago utilizzava i terreni affrancati dalle acque per la semina di grano e legumi. Vigne e oliveti erano carenti, tanto che il vino proveniva da San Nicandro Garganico e l’olio giungeva dalle terre di San Severo e Serracapriola. Quello di Lesina era un territorio sproporzionato rispetto a una popolazione contenuta, che poteva essere destinato proficuamente all’impianto di vigneti e oliveti. Anche perché, secondo il parere di Manicone, persino l’olio «onfancino», prodotto da olive verdi e acerbe, poteva aiutare i lagunari a contrastare la malaria.


Da Poggio Imperiale, colonia fondata dal principe Placido Imperiale, attraversando la valle di Stignano, si risaliva nel promontorio garganico fino a giungere a San Marco in Lamis, «Terra» che Lorenzo Giustiniani nel 1804 aveva trovata ricca in produzioni di frumento, legumi, vino, olio, ghiande e fieno per l’alimentazione animale, non prestando attenzione a quella altamente innovativa del granturco, in via di sperimentazione. Solo sul finire del Settecento, in località «Calvaruso», facoltosi sanmarchesi avevano cominciato a interessarsi alla coltivazione di oliveti, facendo innestare l’estesa boscaglia di olivastri.


«Arignano», posta ad una delle estremità del promontorio, secondo il Giustiniani aveva una produzione di grano e di legumi sufficiente al fabbisogno interno. Per volontà del barone del luogo erano stati innestati gli olivastri posti lungo le pendici della montagna. Il confronto con le selve olivetate del feudatario era impietoso: i contadini e i braccianti non possedevano che pochi alberi. All’Università di Rignano Garganico apparteneva la tenuta di Paglicci, ceduta in godimento ai Padri Certosini dell’abbazia di San Martino in Napoli, i quali ne ricavavano quattromila decalitri di olio.


A oriente di San Marco in Lamis, la «Terra» montuosa e petrosa di San Giovanni Rotondo offriva ai suoi abitanti «tutti i prodotti di prima necessità». Lorenzo Giustiniani, facendo riferimento alla Descrizione d’Italia di Leandro Alberti descriveva raccolti tassati di grano, orzo e altre biade. Non mancavano gli oliveti, oltre selve di olivastri potenzialmente trasformabili con l’innesto di varietà produttive. In particolare, il microclima delle «Mattine», località posta alle pendici meridionali della montagna al riparo dei venti boreali, favoriva la già adattata coltivazione olivicola.


Ad est di San Giovanni Rotondo, oltrepassato il lago di S. Egidio, su un ‘altura sorgeva Monte Sant’Angelo. Secondo Giustiniani, Monte S. Angelo produceva grano, legumi, vino, olio, carrube, oltre miele, manna e pece. A Monte i vigneti erano stati ovunque estirpati per favorire la produzione di olio. Anche nella contrada di «Matinata» le vigne, sommerse dal fango e dai detriti provenienti dal canalone allo sbocco di Valle Carbonara, erano state sostituite da oliveti di nuovo impianto. Nella piana di Mattinata, protetta dai venti boreali, lo storico locale Michele Tranasi conferma un’attività agricola volta alla produzione di cereali e, in misura minore, a quelle dell’olio e delle mandorle.


Giustiniani aveva accertato nel territorio di Manfredonia la presenza di grano, legumi, vino, ortaggi che, prodotti in grandi quantità, venivano in parte commercializzati nei mercati di altri paesi. A sud dell’abitato di Manfredonia, nell’area tuttora denominata «Sciale», compresa tra i fiumi Candelaro e Cervaro, il lago Salso e la torre di Rivoli, i manfredoniani, pur gravati dalle mille insidie della malaria, si dedicavano alacremente a coltivare terreni di natura prettamente sabbiosa. Lungo lo «Sciale» venivano coltivati anche alberi da frutto quali cotogni, fichi, gelsi neri, persino olivi.



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