L’odierna puntata – la ventunesima – del lungo viaggio nella storia del meridionalismo in cui ci sta conducendo Michele Eugenio Di Carlo è particolarmente significativa, perché l’autore riflette sul più grave dei pregiudizi che gravano sul Mezzogiorno, smontando la tesi – molto diffusa, e purtroppo non solo nel passato – che vuole che l’inferiorità del Mezzogiorno sia una questione di razza. Una interpretazione apertamente razzistica e razzista della questione meridionale, contro la quale si batté a fondo Napoleone Colajanni, le cui riflessioni vengono analiticamente illustrate da Di Carlo.
L’interessante articolo pone implicitamente un interrogativo ancora molto attuale, nonostante che ormai sia trascorso più di un secolo e mezzo dalla pubblicazione dei coraggiosi libri di Colajanni: fino a che punto sono stati proprio i pregiudizi stigmatizzati dal grande meridionalista siciliano a impedire che la questione meridionale fosse seriamente affrontata? Buona lettura. (g.i.)
*
Il siciliano Napoleone Colajanni nel maggio del 1860, appena tredicenne, raggiungeva Garibaldi dopo lo sbarco a Marsala e nell’estate del 1862 veniva incarcerato a Savona per aver partecipato allo scontro dell’Aspromonte [1]. Accusato di cospirazione repubblicana contro lo Stato, trascorreva quasi interamente il 1869 in carcere. Una volta libero riprendeva gli studi in Medicina con particolare attenzione all’antropologia criminale, tanto da sostenere, in aperto contrasto con le tesi positiviste di Cesare Lombroso, Ferri Enrico, Alfredo Niceforo, che la criminalità nel Mezzogiorno non era legata a tare genetiche, bensì alle condizioni sociali e materiali delle popolazioni rurali, mantenute in uno stato di semi schiavitù dalla classe borghese dominante con l’assoluta complicità dei nuovi governi unitari.
Colajanni veniva eletto in Parlamento nel 1890 e nel 1895 risultava tra i fondatori del Partito Repubblicano Italiano. Noto poiché nella seduta della Camera del 20 dicembre 1892, sensibile alla questione morale, aveva denunciato con estremo coraggio lo scandalo della Banca Romana, mettendo a nudo untuosi rapporti di corruzione tra politica, affari e mafia, nei quali erano pienamente coinvolti il ministro del Tesoro Giovanni Giolitti e il capo del Governo Francesco Crispi.
Era stato lo stesso Colajanni ad intervenire quando Francesco Crispi, tornato a capo del Governo tra la fine del 1893 e gli inizi del 1894, reprimeva nel sangue le rivolte popolari dei Fasci siciliani, scrivendo l’anno stesso un testo [2] in cui chiariva le cause dei conflitti sociali: «l’odio delle classi lavoratrici contro i galantuomini» derivava dalla «prepotenza feudale», applicata «sotto l’egida delle autorità governative – prefetti, delegati, carabinieri»; una prepotenza che le masse operaie non potevano contrastare nemmeno per vie legali «a loro non consentito dalle stesse leggi», quando persino il diritto elettorale era ancora «un privilegio di alcune classi» [3].
Chiaramente, centralismo piemontese e sviluppo economico duale avevano sacrificato le masse popolari del Mezzogiorno, gravate dai pesi della svolta protezionista, dalla pressione fiscale, dal carovita, dalle limitazioni al commercio con l’estero dei prodotti agricoli.
Sui pregiudizi di cui erano vittime i meridionali Colajanni ritorna nel 1898 nel testo Per la razza maledetta [4] con osservazioni che affrontano polemicamente con toni sarcastici e spesso canzonatori l’interpretazione razzistica dell’inferiorità del Mezzogiorno, spiegandone le origini nelle teorie della scuola positivista che, sul finire dell’Ottocento, aveva ottenuto largo credito nella pubblica opinione.
Colajanni spiegava che l’evoluzione dell’antropologia e della sociologia aveva comportato la scoperta di razze inferiori persino in Europa: razze inferiori di cui occorreva liberarsi nell’interesse della «civiltà», così come era avvenuto nel passato in Africa, Asia, America e Australia. Il parlamentare siciliano riferiva che, secondo il Lapouge e altri antropo-sociologi, il progresso dell’umanità passava necessariamente attraverso lo sterminio di una sua buona metà e che in Italia esisteva la scuola del Lombroso a sostenere che la delinquenza in alcune regioni italiane era dovuta al fattore razza.
Il siciliano Alfredo Niceforo, uno dei maggiori discepoli di Cesare Lombroso, nel 1897 aveva pubblicato un testo sulla delinquenza in Sardegna [5], giudicato dal suo maestro Enrico Ferri come uno dei migliori saggi sulla sociologia criminale. Un testo che viceversa Colajanni giudicava come una «calunniosa requisitoria» atta a colpire «non una piccola zona della Sardegna, ma una buona metà dell’Italia» [6]. Infatti il Niceforo, partendo da aree del Nuorese e dell’Ogliastra che definiva «zona delinquente» per antonomasia, riteneva i sardi possessori di fattori genetici predisponenti a gravi forme criminali riscontrabili scientificamente nello studio dei crani e dei dati antropologici. Colajanni non perdeva l’occasione di ridicolizzare le tesi di Niceforo, sostenendo dati alla mano che esisteva semplicemente un chiaro parallelismo tra miseria, analfabetismo (superiore all’80% da Oristano a Iglesias e Nuoro, invece compreso tra il 20 e 30% da Sondrio a Milano e Torino) e frequenza di omicidi, che inficiava qualsiasi possibile ricorso alla teoria della «razza maledetta» per spiegare l’alto tasso di delinquenza criminale.
Causticamente, e con malcelata ironia, il parlamentare scriveva del siciliano Niceforo: «… non può ignorare che anche lui appartiene alla razza maledetta e della medesima porta inoccultabili alcuni caratteri, tra i quali la bassa statura» [7]. Colajanni ricordava, citando il Giornale di Sassari, che l’ombra nera gettata sulla Sardegna era perfettamente estendibile all’intero Mezzogiorno e concludeva amaramente che per logica deduzione, basata sulla conoscenza della letteratura della scuola di antropologia criminale, le popolazioni della Sardegna e del Mezzogiorno d’Italia, affini per origini e caratteri antropologici alla «zona delinquente», erano soggette ad essere trattabili col ferro e col fuoco, così come erano state trattate le «razze inferiori» africane e australiane, sterminate da feroci e finti «civilizzatori» europei «per rubarne le terre» [8].
Ad accreditare le tesi negazioniste dell’inferiorità razziale dei meridionali di Colajanni era intervenuto Gaetano Salvemini, ricordando che i governi liberali unitari avevano lasciato sprofondare nella crisi più nera l’economia del Mezzogiorno. Persino i provvedimenti del 1904 e del 1911, volti ad abbattere l’analfabetismo delle masse rurali meridionali costruendo nuove scuole, erano stati «congegnati in modo da essere efficaci quasi esclusivamente nelle zone più progredite dell’Italia settentrionale, lasciando quasi illeso il problema dell’Italia meridionale» [9].
Salvemini, uscito nel 1911 dalle file socialiste, denunciava che le teorie positiviste erano penetrate persino nei ranghi degli operai dell’industria del Nord e tra i quadri dirigenti del Partito Socialista; le politiche del Partito Socialista dei primi anni del Novecento erano state dirette esclusivamente a tutelare i tre gruppi sociali che costituivano la massa elettorale socialista dell’Italia settentrionale: gli operai delle industrie con leggi sociali mai estese «ai lavoratori della terra»; le organizzazioni agricole della pianura padana; gli impiegati pubblici. Mentre erano trattate con indifferenza le riforme di interesse generale: «Riforme tributarie, autonomia comunale, riforme doganali, riforme militari, riforma elettorale, legislazione sociale per tutti i lavoratori» [10]. Inoltre i congressi socialisti, pur occupandosi sempre della tutela della dignità e della salute dei lavoratori, «nei lavori preparatori di tutte le leggi sociali e nelle contrattazioni parlamentari i contadini affondavano sempre, […] non un solo provvedimento di legislazione sociale, infatti, tra il 1901 e il 1914, ha riguardato mai il proletariato rurale». Per il resto, scioperi, disordini, tumulti erano consentiti nelle aree settentrionali del Paese dove i deputati socialisti avevano forte influenza, ma nel Sud «era un continuo macello di contadini, al primo accenno di sciopero e di tumulto» [11]. Violenze che, secondo lo storico pugliese, non turbavano affatto i sonni dei socialisti settentrionali, visto che per loro i contadini meridionali non erano «buoni ad altro che a farsi stupidamente ammazzare» [12], mentre secondo l’onorevole Ivanoe Bonomi le stragi, nemmeno più degne di interrogazioni parlamentari sugli eccessi delle forze dell’ordine, andavano spiegate incredibilmente con l’«insufficiente educazione politica» degli stessi contadini [13].
Michele Eugenio Di Carlo
Comments